Il Grammelot: da Fo a Celentano, passando per Mr. Bean

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Il ‘molleggiato’ Adriano Celentano

I tre protagonisti di questa cultstory sembra abbiano poco o nulla in comune. Si tratta di un attore teatrale premio Nobel per la letteratura, un cantante di musica leggera fra i più importanti del panorama italiano ed un personaggio fittizio della comicità british. In apparenza niente, a parte la nazionalità dei primi due, potrebbe legarli l’un l’altro. Tuttavia, basta fare uno sforzo di memoria e riflettere sul loro modo di comunicare. In realtà, l’esempio di Adriano Celentano è circoscritto ad una sola canzone degli anni ’70, ‘Prisencolinensinainciusol ‘, il cui testo, che ad un orecchio inesperto potrebbe sembrare in un inglese maccheronico, è in realtà totalmente privo di senso compiuto, scritto forse per canzonare (letteralmente!) la moda tutta italiana di ascoltare musica straniera senza capirne il significato. Inutile dire che fu un successo clamoroso.

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Rowan Atkinson, alias Mr. Bean

Passiamo a Mr. Bean: creato negli anni ’80 dall’attore che l’ha interpretato, Rowan Atkinson, questo personaggio fa parte di quella comicità che non si avvale di dialoghi (si pensi al suo conterraneo Benny Hill ), ma soltanto di sketches esilaranti improntati sulla gestualità e suoni buffi che enfatizzano l’aspetto ridicolo della situazione. Protagonista di una fortunata serie tv, un paio di film al cinema ed un cartone animato, Mr. Bean è considerato ormai il simbolo di un modo di comunicare che non si avvale di parole, ma di una compenetrazione di suoni e gesti che sviluppa un messaggio chiaro ed univoco.

Infine, Dario Fo. Nel 1968 il drammaturgo varesotto porta in scena quello che è considerato il suo capolavoro assoluto, Mistero Buffo, ‘giullarata’ popolare costituita da monologhi relativi ad argomenti biblici. La particolarità di quest’opera teatrale è la lingua con cui viene recitata, frutto di più idiomi, in questo caso di origini padane, che si avvale di onomatopee piuttosto che di parole di senso compiuto. Ogni suono viene accompagnato da un gesto o un’espressione che gli conferiscono un significato che trascende ogni registro linguistico, ma che dimostra di avere la stessa efficacia.

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Il premio Nobel Dario Fo

Tornando ai nostri tre personaggi, quello che li accomuna è la capacità di comunicare con enfasi, facendosi capire benissimo dall’interlocutore, senza l’ausilio di parole e concetti. E’ il principio alla base del cosiddetto ‘Grammelot‘.

Sebbene lo stesso Fo ne rintracci le origini già dal Medioevo, in particolare nelle rappresentazioni di giullari e comici dell’arte, è proprio a lui che si deve la sua diffusione dalla fine degli anni ’60 in poi. Secondo l’attore, “Grammelot significa gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che è in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto.”  Il termine proviene probabilmente da un francesismo composto dalle parole gram(maire) «grammatica», mêl(er) «mescolare» e (arg)ot «gergo», anche se alte fonti ne rintracciano le origini nel dialetto veneziano.

A costituire il grammelot quindi, un sistema fonetico composto di ritmo, intonazione e sonorità, il cui flusso somiglia solo in apparenza ad un dialogo di senso compiuto, accompagnato da una componente espressiva mimico-gestuale che aiuta a veicolarne il significato.

Cosa li accomuna quindi? Sicuramente la capacità di non doversi avvalere delle parole per farsi capire, o per strappare una risata.

(A.C.)

Di seguito, un frammento di un monologo tratto da ‘Mistero Buffo’, in cui Fo spiega le potenzialità del Grammelot:

 

scritto da:

Annachiara Chezzi

Laureata in Scienze della Comunicazione e specializzata in Gestione delle Attività Turistiche e Culturali, è creatrice ed articolista di Cult Stories. La sua innata curiosità la spinge a non accontentarsi di nuotare in superficie e a voler approfondire gli argomenti che tratta.

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